Nelle banlieue parigine un ragazzo di sedici anni è stato ferito letalmente e si trova ora in pericolo di vita. Tre giovani – Vinz, Hubert e Saïd – si aggirano per il quartiere fomentati dall'odio e decisi a sfogare la propria rabbia.
Il secondo lungometraggio di Mathieu Kassovitz è un piccolo gioiello capace di ritagliarsi a pieno diritto un posto tra i film europei di culto degli anni Novanta. La regia, secca, che alterna repentini movimenti di macchina all'uso di sinuosi piani-sequenza è impreziosita da una livida fotografia in bianco e nero aliena da ogni compiacimento manierista e capace di rifarsi a un tono semi documentaristico. E i tre protagonisti, guidati da un senso di insoddisfazione, incarnano un preciso disagio giovanile, esaltato sia dall'atmosfera grezza, sia dalla formidabile interpretazione del trio di interpreti (nella versione originale i dialoghi sono in verlan, un linguaggio gergale francese). Il regista offre il ritratto di una società spezzata e in caduta libera, ma lo fa senza condannare o assolvere nessuno. Premio per la miglior regia al Festival di Cannes.