Un film come Leave her to Heaven (1945) di John M. Stahl può far vedere come la morte giochi dentro e fuori il testo.
Si tratta di un hollywood-melodrama, di un'opera la cui percezione si modella entro precisi canali d'attesa. In un mélo è bene che qualcuno muoia, come norma generale: condizione questa perché la rappresentazione tocchi un climax, un eccesso. Eccesso necessario perché la finzione possa essere goduta fino in fondo, nella sua (in)verosimiglianza. In un mélo, dove tutto è assoluto, ipercodificato, dove ci si innamora a prima vista e dove il confine tra normalità e follia è così labile, rappresentare la morte, far finta che qualcuno muoia, significa esibire, quasi metalinguisticamente, il massimo di finzione possibili.
La simulazione (e la coscienza che di simulazione si tratta) che in un mélo avvolge lo scorrere delle immagini non può non arretrare e inchinarsi di fronte alla morte). Morte che nella grana delle immagini è a un tempo presente (quelle immagini sono frammenti congelati di visone altrui) ma anche assente (la morte nel mélo è fittizia come tutto il resto, a cominciare dai fondali). Eppure, con tutta la sua inverosimiglianza, la morte si dà come nodo di senso, evento privilegiato attorno a cui ruotano investimenti e identificazioni, i modi di fare e di vivere il film.
Il film di Stahl è particolarmente funebre. La protagonista, Hellen (Gene Tierney), che ha alle spalle un rapporto edipico col padre (che « ha fatto morire col suo amore troppo forte »), cattura Cornel Wilde sulla scena della esequie di quello (si tratta di spargerne le ceneri tra le montagne). Sposatolo, lascia affogare l'invadente fratellino di Cornel, e abortisce, gettandosi da una scala, presa da odio per quel nascituro che la priverebbe dell'affetto del marito. Alla fine si suicida, manipolando le prove in modo da far cadere le colpe sulla sorellastra, di cui nel frattempo Cornel si è innamorato.
Il materiale diegetico si coagula attorno a una serie di morti eseguite dalla gelida e splendida Hellen; il circolo si chiude nel suicidio. Circolarità è pure nella costruzione a flash-back, col ritorno finale di Cornel al lago. La finzione è enunciata, da un narratore esterno, come un passato morto, chiuso. Film-reliquiario.
Le morti si danno fuori dalle immagini tranne che nel climax dell'affogamento del fratellino, dove vi è esplosione di gioia sadica e adesione totale alla crudeltà della bella che lascia morire il poverino che con la sua invadenza non la lascia fare l'amore con il marito.
Il film di Stahl è giocato su un alternarsi di piacere sadico, di adesione alla morte – e di ritirarsi di fronte al vuoto. E' giusto che Hellen muoia, ma non perché debba essere punita: semplicemente si colma un vuoto, un'assenza che minava le immagini: si riporta la finzione a un piacere medio, mentre la presenza di Hellen significa scariche di godimento sadico e iconoclastico. Gene Tierney faceva incrinare le immagini col troppo senso che incarnava. Troppa finzione, troppo piacere.
Meravigliosamente inverosimile. Sarebbe facile associare eccesso d'amore a eccesso di morte. Importa più che lei deve morire per ristabilire, con la sua assenza, un ordine nella finzione. Senza norma non ci sarebbe nemmeno delirio.
Tratto da «Filmcritica» n.364, maggio 1986