To Be or Not to Be è un film pericoloso: non si finirebbe più di parlarne. Eppure, anche se segna per vari motivi il culmine dell'attività di Lubitsch, non lo si potrebbe mai definire un'opera perfetta: troppi i registri su cui si deve giocare, troppi gli antefatti (intrinsecamente apprezzabilissimi) che deve affannosamente accumulare prima di giungere alla grandi scene di teatro di finzione nella finzione; proprio come Il grande dittatore, cui non a caso assomiglia, deve continuamente sorvegliarsi per mantenere il suo pericolante equilibrio fra un'immane farsa e un'immane tragedia; e la musica del film, che udiamo ad esempio nei titoli di testa così squisitamente « divistici » e datati, è ovviamente la Polonaise di Chopin in un « arrangiamento » a piena orchestra di Werner Heymann.
Per ritrovare la prefazione di Trouble in Paradise o di Angel, e senza dubbio con tonalità più stemperate e meno inquietanti, bisogna passare al film successivo, il da Lubitsch realizzato per la 20th Century Forx: Heaven Can Wait (Il cielo può attendere, 1943), che è anche in un certo senso il suo ultimo film, quello « riassuntivo » ( Cluny Brown, Fra le tue braccia, 1946, sarà invece, soltanto, la più belle delle sue opere « postume »). La « bellezza » delicata e impalpabile di Heaven può, dal canto suo, suscitare dei dubbi. E' un film strettamente autobiografico e al tempo stesso estremamente vago: chi è in definitiva, questo Henry Van Cleve che rievoca garbatamente la sua vita nel vestibolo dell'inferno? E' il primo incontro di Lubitsch con il Technicolor, un incontro felicissimo sul piano del gusto e della suggestione figurativa; ma al tempo stesso non possiamo non sentire che queste mirabili tinte pastello, così adatte a rievocare il mondo dell'infanzia e i salotti newyorkesi degli Anni Novanta, sono assai meno ricche di colore e di contrasto del bianco e nero di The Merry Widow (e di Trouble). E' un film che onestamente non « vuol dire nulla », non contiene alcun “messaggio” (per questa ragione, sostiene Lubitsch, produttori e distributori avrebbero espresso perplessità, rendendo molto laboriosa la preparazione); e invece, a ben vedere, è la ricapitolazione di moltissimi motivi e figure archetipiche che hanno ossessionato Lubitsch fin dagli inizi: il mito di don Giovanni, quello di Faust, quello del Doppio, la funzione della Donna come Madre e come Morte. Tutto rievocato a beneficio di un Satana educato e intelligente, che si fa chiamare Eccellenza, e mantiene rapporti di buon vicinato con i reparti superiori, anticipando così quello di Bergman in Djavulens Oga (L'occhio del diavolo, 1961), e ricordando irresistibilmente la « civiltà » elogiata da Mefistofele nel Prologo in Cielo del primo Faust: « Mi piace vedere il Governatore di tanto in tanto, e mantenere buoni rapporti; è molto gentile da parte Sua parlare così amichevolmente, anche la Diavolo ».
Van Cleve, dal canto suo, si presenta più come una versione moderna e inoffensiva di don Giovanni come titano della scienza, faustianamente assetato di sapere. Il suo peccato, per cui immagine di dover scendere senza remissione all'inferno, è l'amore per la Donna, che non gli ha dato requie dall'adolescenza fino alla vecchiaia: anche sul letto di morte respinge l'infermiera di giorno, brutta e vecchia, e strepita che gliene mandino una più appetitosa. Ma questo don Giovanni lubitschiano, galante e ben educato, non ha più nulla della figura tradizionale dell'«ateista fulminato» o dell'empio sempre pronto a sfidare le virtù in cielo e in terra. Nessuna figura paterna o mortuaria si presta del resto a rimproverarlo: invece della Statua del Commendatore, del terribile Convitato di Pietra, ci troviamo di fronte ad ammiccanti figure di padri e nonni interpretati da caratteristi simpatici e arzilli come Charles Coburn o Eugene Pallette. Già il don Giovanni di Schnitzler, quell'Anatol che senza dubbio Lubitsch ha conosciuto, ci fa capire che don Giovanni, nel nostro secolo, non sfida veramente alcun tabù ben definito, a meno che non sposti il suo raggio d'azione sul terreno esistenziale di un Kierkegaard. Come scrive G.Macchia in Vita avventure e morte di don Giovanni (Bari, 1966), l'eroe è ormai diventato « una mezza caricatura: quell'esagerazione che un tempo violentemente lo caratterizzava, nella sua sfida alla società, alla morale, ai sentimenti onesti, è diventata accurata ed elegante deformazione. Non è più un mostro, un fuori legge, ma il piacevole e finanche un po' stucchevole rappresentante d'una società invecchiata, e finisce la sua vita non tra il fuoco e la statua, ma nel triste squallore del suo appartamento da scapolo » (p. 3; il corsivo è nostro): la definizione di Henry Van Cleve è perfetta, anche se in questo caso abbiamo anche una moglie e una famiglia, con relative insofferenze ma in un quadro complessivamente positivo.
Come lo interpreta Don Ameche, Van Cleve non è una totale « caricatura » come L'Alexis di Die Bergakatze, ma non ha nemmeno la sfacciataggine simpatica e insolente di Chevalier. Si avvicina, se mai, e senza possederne le qualità di espertissimo commediante, al tipo dell'amico di famiglia generalmente affidato a Melvyn Douglas; è dunque una figura debole, che si scusa continuamente della proprio deplorevole tendenza a non lavorare e a corteggiare le belle donne. Le quali, bien sûr, sono le più forti: la bellezza opalescente di Gene Tierney (altra squisita modella che Lubitsch ha avuto in comune con Sternberg) non h acerto l'alone mitico della Garbo o della Dietrich, la sensualità vagamente repressa e combattuta di Jeanette MacDonald, lo strepitoso temperamento di commediante di una Hopkins o di una Lombard; ma la sua dolcezza ha qualcosa di inflessibile e duraturo, a differenza del disordine e dell'effimero in cui vive il marito. Come ricorda Otto Rank, il mito di don Giovanni si lega strettamente, alle origini, con quello della protezione accordata dalla madre al figlio minacciato di morte o di castrazione della figura paterna, e con il bisogno che ha il maschio-figlio di strappare la donna-madre al regno dei morti: non a caso in Molière don Giovanni ha tolto donna Elvira dal chiostro (e, potremmo aggiungere noi, Henry Van Cleve ha rubato Martha al cugino Albert, il bravo funzionario della City che l'avrebbe chiusa nel tempio degli affari). Di qui la netta dicotomia fra l adonna-moglie-madre, donna Elvira, che appare anche velata a pronunciare vani ammonimenti, e le altre, le donne del peccato e dell'attimo fuggente: una dicotomia che Da Ponte e Mozart, ponendo accanto a donna Elvira un'altra figura dolorante, quella di donna Anna, già spezzano e rendono meno violenta.
Quanto a Lubitsch, la moglie-madre rappresentata da Martha fa in un certo senso tutt'uno con le tante donnine che deliziano la vita di Henry, e senza per questo che ne venga meno il tradizionale alone materno e privo di aggressiva sensualità. Nel mondo lubitschiano, e mai chiaramente come in Heaven Can Wait, la donna rivela due volti opposti e fra loro complementari: nel sogno raccontato da Henry (un sogno « intimo » fino all'imbarazzo, con la nave che solca il mare di champagne, i sigari che fungono da ciminiera, la porta chiusa da cui giungono le note del valzer della Vedova allegra) dietro la famosa porta può esserci dunque la Bellezza o la Morte, la Sonia in bianco o la Sonia in nero che già la MacDonald ci ha fatto conoscere sotto il velo sollevato da Danilo-Chevalier. Nella cornice dorata del fotogramma, un volto si sovrappone all'altro, lieve, senza strappo, come quello dell'infermiera bionda e graziosa che si sostituisce, verso il finale, all'anziana collega rallegrando le ultime ore sulla terra de protagonista; e la sostituzione si realizza attraverso un rapido passaggio davanti allo specchio. Non a caso questo regista che già ci aveva dato le due Henny Porten di Kohlhiesels Töchter, e la duplicazione della « bambola » Ossi, o di Lady Barker/Angelo, per nulla dire del volto mascolino e della femminilità ritrovata di Ninotchka, ci fa sapere, prima ancora di «salvare» il suo don Giovanni, che la donna – Elena o Margherita – è invece irrevocabilmente condannata, e proprio per la sua duplicità: la signora Craig (Florence Bates) è un'Elena-Margherita che lo spettatore è ben lieto di veder precipitare nella botola, quando Sua Eccellenza preme il pulsante della sua scrivania. Ma è veramente salvo, questo Henry-don Giovanni che è anche un Henry-Faust? In Goethe, è Dio a salvare l'uomo, che ha comunque «molto lottato » e sbagliato; qui la sentenza assoluta viene dal Diavolo (in tacito accordo con le potenze del piano di sopra), e l'eroe, almeno nell'edizione originale e non in quella decurtata dalla miope censura dell'era scelbiana, rifiuta tale assoluzione preferendo seguire una bella ragazza che ha incontrato in ascensore e che, purtroppo, non « sale », ma « scende » (di qui, fra l'altro, il titolo che nell'edizione italiana non aveva più alcune senso). Se la donna di Lubitsch va dunque punita, l'uomo – galante, devoto, o consapevole della sua corresponsabilità – deve comunque seguirla in quella discesa agli Inferi che è anche, chiaramente, una discesa verso le Madri. In questo senso, il debole e timido Van Cleve rivela una traccia dell'antica sfida del « burlador de Sevilla » e dell'« ateista fulminato »: addirittura si condanna da sé, perché lo vuole. Oppure, e anche questo è possibile, sceglie la dannazione perché sa di meritarla: nel patto che non ha firmato con Mefistofele, perché non era necessario, ma che qualcun altro ha già firmato prima di lui e per lui, una clausola diceva chiaramente che apprezzare « l'attimo fuggente », e gridargli « arrestati, sei bello », equivaleva a perire, nel corpo e nell'anima, e a restare per sempre legato alla « catena fatale ». Thomas Mann, nel suo discorso a Princeton del 1938, dunque cinque anni prima del film, osservava acutamente che in quella scena famosa Faust e Mefistofele s'ingannano a vicenda, perché intendono due cose diverse: Faust non ha nessun interesse per le gioie facili e sensuali, Mefistofele intende dare la bellezza dell'« attimo fuggente » più o meno nel senso in cui di lì a poco parlerà, travestito da Faust, allo studente inciso sulla facoltà da scegliere: « Ogni teoria, mio caro amico, è grigia, ma verde è il lieto, aureo albero della vita ». Non intendiamo certo addentrarci in certi problemi di esegesi goethiana, ma è evidente che Henry intende l'attimo fuggente proprio come lo intendeva Mefistofele, e non Faust: la bellezza del « verde albero della vita » lo appaga e lo lascia a un tempo insoddisfatto, perché ne gode e al tempo stesso ne vuole sempre ancora e sempre di più, fino alla morte (l'infermiera) e oltre (la ragazza dell'ascensore).
Il « tempo ritrovato » che suggella la rievocazione di Henry, e di Lubitsch, non sarà dunque un blocco cronologico compatto, una « storia » precisa, ma una serie di frammenti (le ellissi, i salti di tempo, uno dei quali addirittura di vent'anni, lasciano spesso perplessi i critici di Heaven Can Wait): si potrebbe dire con Georges Poulet che « ciascuna delle fotografie è rigorosamente determinata dall'inquadratura, ma l'insieme resta discontinuo » (L'espace proustien, Gallimard, Paris 1963, p. 40). I frammenti della vita di Henry, le « fotografie », le figurine in movimento (e l'impressione è appunto quella di un vecchio album di famiglia rilegato e profumato, con appena un minimo di vita e di calore, o un minimo di « malattia »: le mute colazioni degli Strabel, gli starnuti che Martha cerca di soffocare al concerto) non si compongono dunque in quadro unitario, restano appunto momenti, « attimi fuggenti », ai quali non si fa nemmeno in tempo a rivolgere la preghiera rituale perché si arrestino; e che comunque sono « belli », struggenti, e rivissuti con grande tenerezza nostalgica. Del resto, lo aveva scritto anche lo stesso Goethe; che « la vita dell'uomo è un poema, con un inizio, sicuro, e una fine, eppure ein Ganzes ist es nicht: non è un tutto ».
Tratto da «Ernest Lubitsch», La Nuova Italia, Firenze 1977