Un film surreale, un musical, un film di fantascienza, forse un “fake remake” de L’ultimo uomo sulla terra.
Abacuc è un uomo di quasi 200 chili, che passa il suo tempo in una immobilità distaccata da qualsiasi emozione, si reca prevalentemente al cimitero, in parchi tematici dell’Italia in miniatura o vicino ad architetture utopiche. Vive in una casa ferroviera e non proferisce mai parola, l’unica voce che si sente è quella femminile e fuori campo che interviene quando, strappato per un momento alla sua solitudine catastrofica, Abacuc alza una cornetta telefonica con il filo staccato: la donna rimane celata, comunica tramite citazioni letterarie e si rivelerà un cul de sac come l’esistenza di Abacuc, perché è soltanto il suo sdoppiamento. Vive all’interno di geometrie rigorose, la sua esistenza è una sorta di sinfonia inceppata: Abacuc è una marionetta senza spettatore, recita l’ultima pièce possibile. In quanto sopravvissuto alla catastrofe, che vive nel continuo inseguimento di nulla, Abacuc rappresenta il bisogno dell’arte cinematografica di autoestinguersi e implodere in sé stessa. Il film è girato in Super 8, le musiche originali sono del Maestro Dario Agazzi.
Opera realizzata con il sostegno della Lombardia Film Commission - Film Fund 2014
La concezione del film è legata alla monumentalità delle rovine. La rovina e il monumento sono condensati nello stesso corpo e nel medesimo sguardo. Un monumento non ai caduti ma ad un superstite. Abacuc è una marionetta senza spettatore. Recita l'ultima pièce possibile. Memore delle macerie delle avanguardie, non voglio cadere sedotto dal nuovo classicismo camuffato da una parvenza di nuove vesti o storie. Ecco così un film fermo, immobile e fotografico dove alla telecamera e alla narrazione non è più richiesto alcun movimento. La realtà pre-esistente viene documentata senza pretesa di verità alcuna. Finzione e documentario non si fondono e non si riconoscono, ma travalicano e sconfinano per incontrarsi in altri territori quali il teatro marionettistico, il teatro dell'assurdo e la fotografia. È tutta una colossale farsa in cui la serietà e un severo rigore formale permettono al film di trattenersi dalla più sbracata ed evidente grottesca messinscena. Il grottesco non evapora e non svanisce, ma si cela nelle reiterate e composte azioni del protagonista, nel cimitero e nel medium cinematografico così come nella costante voce off di stampo citazionistico dove la citazione non è più simbolo o segno, ma evidente atto trattenuto di ricerca della novità. Abacuc è riconducibile dal punto di vista pittorico a Piero della Francesca per lo sguardo ieratico ed a George Grosz e Otto Dix per la sua costruzione di “corpo”. È vittima di telefonate citazioniste essendo lui a sua volta una non richiesta e sgradita citazione. La mia idea di cinema è profondamente legata ad un'idea estetica, dove ogni inquadratura viene trattata come se fosse “un personaggio” e dove gli elementi rappresentati devono trovare un preciso equilibro armonico. Quest'armonia della forma deve necessariamente essere in conflitto con la severità grottesca degli avvenimenti sopra citati. La storia di Abacuc è la storia del suo sguardo e del paesaggio che vive, per questo il film è da considerarsi di natura bipartitica, perché in esso s'inseriscono le composizioni “a motivetto” appositamente registrate dal compositore Dario Agazzi, il quale da sempre lavora su partiture calligrafiche e volutamente inceppate, creando enormi nastri magnetici e bobine analogiche contenenti eterne variazioni della medesima sinfonia. In questo lavoro la “materia” della pellicola, la storia narrata e l'audio sono la medesima parte di un corpo, un corpo che ci spaventa perché rimanda ad un’immagine che non vogliamo guardare essendo troppo simile a quello che mai vorremmo dire di noi.
Film come onde che lambiscono territori cinematografici poco battuti. La sezione curata da Massimo Causo, appunto "Onde", è un oggetto insieme speciale e curioso che risplende proprio per la sua eccentricità all'interno del programma di Torino 32. Opere che superano i generi e le estetiche comuni per proiettarsi in spazi dove allo spettatore viene chiesta la massima apertura mentale unita a pazienza e curiosità. Come altrimenti disporsi alla visione di Abacuc di Luca Ferri, poema per immagini e suoni che canta l'esistenza dell'eroe eponimo, un omaccione di circa duecento chili di incredibile potenza espressiva? Corpo-oggetto che a dispetto del peso si libra leggero all'interno delle inquadrature, raccontato con il linguaggio e il bianco e nero tipici del cinema muto e con la provocatorietà dei film surrealisti. Super8 in mano, Ferri inquadra Abacuc ponendolo al centro di cadre al limite dell'onirico esaltate da un montaggio e un commento musicale di rara efficacia. Quattro anni di lavoro ossessivo per dare forma a un film che sfugge alle classificazioni. La definizione più vicina potrebbe essere quella di sperimentale, ma è comunque limitante. Abacuc è un film inclassificabile teso a recuperare un linguaggio di grado zero che permetta al cinema di azzerare le stratificazioni di decenni per tornare allo stupore e alla purezza delle origini. Certo, non è un'opera per tutti. Ma, superato l'impatto iniziale, si rivela un'esperienza visiva emozionante. (Angela Prudenzi, cinematografo.it)