«La sua bellezza ha il colore dell’incanto. Ella infrange ogni frontiera tra sogno e realtà. In lei si può riconoscere una classe superiore a ogni altra star femminile. I suoi occhi, di uno splendore incomparabile, appartengono al medesimo alto livello che siamo soliti attribuire ai maestri dei secoli passati. La sua grazia è fatta di una distinzione e di una eleganza mai ostentate, sempre accompagnate da un’umiltà sottilmente controllata».
Così si legge nell’introduzione a una monografia francese dedicata all’attrice americana Gene Tierney (Marceau Devillers, Gene Tierney, Éditions Pygmalion/Gérard Watelet, Parigi 1987).
Una bellezza, aggiungiamo noi, fragile, delicata, trasparente come un cristallo di Boemia, fine come una porcellana di Dresda. Fragile quale fu, purtroppo, la sua vita personale (amori contrastati, come quello per il principe Ali Khan; un matrimonio fallito con lo stilista Oleg Cassini; la nascita di una figlia con seri problemi di salute; un fortissimo esaurimento nervoso che la colpì a metà degli anni Cinquanta; ma poi il suo ultimo, felice matrimonio con il petroliere W. Howard Lee, che le portò finalmente la serenità tanto a lungo cercata). Una fragilità che tuttavia non le impedì di diventare una delle maggiori icone del cinema americano classico, e di costruire una filmografia relativamente breve ma significativa, i cui titoli più rappresentativi sono i quattro proposti dal pacchetto.
Il primo è Il cielo può attendere (Heaven Can Wait, 1943) del Maestro della commedia Ernst Lubitsch. In questa riscrittura del mito di Don Giovanni, Gene è la donna della vita del libertino protagonista, più volte tradita, ma sempre profondamente amata, e alla quale il nostro moderno burlador sempre e inevitabilmente ritorna.
Una figura femminile amata con un trasporto quasi “stilnovista”, come “stilnovista” è l’interesse nutrito da almeno uno dei tre personaggi maschili per la Laura dell’eponimo film di Otto Preminger (Vertigine, Laura, 1944). Creduta morta, presente per la prima metà del film solo come suggestivo ritratto, prima di tornare finalmente nel regno dei vivi, la sua identità viene ricostruita per frammenti, attraverso flashback e suggestioni che sono di volta in volta platonico trasporto per una donna idealizzata (l’anziano esteta Clifton Webb), prosaica infatuazione (il bellimbusto, giovane Vincent Price), attrazione quasi necrofila (il detective Dana Andrews). La fragilità di Gene Tierney si rivela qui oltremodo efficace nella descrizione di una figura femminile divisa fra lo status di fantasma e quello di donna concreta e in carne e ossa.
Personaggio diametralmente opposto, quello interpretato dall’attrice in Femmina folle (Leave Her to Heaven, 1945) di John M. Stahl. Una machiavellica dark lady, una matta col botto afflitta da patologica gelosia in un thriller il cui violento Technicolor restituisce per contrasto tutta la glaciale freddezza che il volto di Gene Tierney sa esprimere a ogni suo atto di violenza.
Il fantasma e la signora Muir (The Ghost and Mrs. Muir, 1947) di Joseph L. Mankiewicz, infine, aggiunge un altro ritratto alla galleria di figure femminili di Gene Tierney. L’eterea ambientazione marittima, il brumoso bianco e nero, la musica di Bernard Herrmann, i battibecchi tra una vedova con bambina e il burbero fantasma di un vecchio lupo di mare sono gli ingredienti di un film che è un po' storia di fantasmi e un po' amour fou di gusto surrealista, con qualche tocco, persino, di screwball comedy. Gene Tierney, che duetta assai gustosamente con un portentoso Rex Harrison, è una donna sola che sa dimostrarsi forte, concreta, al punto da tener testa e al contempo accettare il fascino di qualcuno che viene letteralmente da un altro mondo.
Una diva fragile, dicevamo, che tuttavia ha saputo trovare una sua forza, sia nella vita che sullo schermo. Come scrive lei stessa, a conclusione della sua autobiografia (Gene Tierney, Self-Portrait, Wyden Books, New York 1979), «Ho attraversato un mondo che è esistito (la Hollywood degli anni della guerra e del dopoguerra), e ho vissuto in un mondo del quale non conoscevo l’esistenza (la prigione dello spirito). Se si potesse riassumere in una frase ciò che queste esperienze mi hanno insegnato, sarebbe “La vita non è un film”. Ma questa affermazione non vuole essere né triste né nostalgica. Mi posso solo porre una domanda: se al contrario la mia vita fosse stata davvero un film, si sarebbe trovato un regista che ne affidasse il ruolo principale a Gene Tierney?».